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La recente sentenza della Suprema Corte in ambito penale, Sez. VI, del 13 Aprile 2022, n. 14522, affronta il reato disciplinato all’art. 572 c.p., rubricato maltrattamenti contro familiari o conviventi. Questo delitto, in particolare, punisce i maltrattamenti compiuti ai danni di familiari, conviventi, nonché ai danni di persone in relazione con il reo che sono sottoposte alla sua autorità o comunque a lui affidate per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, esercizio di arte o professione.

Appare quindi evidente come sia presente una tutela ampia che non è posta soltanto in favore dei figli o del partner, anche se coniugi separati; inoltre la recente giurisprudenza ha ampliato ulteriormente l’originario concetto di maltrattamenti, intesi solamente come fisici, tutelando altresì le vessazioni psicologiche.

Nel provvedimento ivi analizzato, invero, è stata ritenuta sufficiente a realizzare la condotta delittuosa l’esistenza di singoli episodi sorti nel rapporto di conflittualità tra coniugi separati e sfociata, come spesso accade nel corso di una separazione, in una mancata osservanza del provvedimento giudiziale in merito alla gestione del figlio minore. In altre parole, nel caso analizzato, è risultato che uno dei genitori non di rado impedisse all’altro di frequentare il figlio, in aggiunta a delle costanti ed abituali vessazioni fisiche e psichiche cui il genitore non collocatario subiva, in alcune occasioni anche davanti al minore. Tutto ciò, chiaramente, aveva lasciato delle gravi conseguenze psicologiche sul bambino.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ritiene infatti con un orientamento consolidato che il delitto di maltrattamenti in famiglia si ravvisa anche laddove si verifichi una sostanziale privazione della funzione genitoriale, realizzata da parte di un genitore mediante l’avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della figura morale dell’altro genitore.

Il genitore che adotta questi comportamenti, costringendo direttamente o indirettamente il figlio ad assistere sistematicamente ai soprusi subiti dall’altro genitore, tiene una condotta che dimostra una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore che è idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo.

Alla luce di quanto sopra appare quindi chiaro come la fattispecie criminosa dei maltrattamenti non presupponga solamente una violenza prettamente fisica perpetrata da un genitore ai danni dell’altro poiché la violenza psicologica non è certo connotata da un disvalore inferiore. Anzi, si fa presente come la giurisprudenza in alcuni casi abbia ritenuto sussistente il delitto analizzato anche quando erano stati commessi atteggiamenti privi, di per sé, di rilevanza penale, come ad esempio una mera ingerenza nelle scelte sull’educazione e sull’organizzazione della vita dei figli, ma pur sempre caratterizzati da una violazioni della condizione psicologica ed emotiva dell’altro genitore.

Qualora riteniate che determinati comportamenti configurino il delitto in analisi sarà opportuno rivolgersi ad un Avvocato. Lo Studio Legale Pasi ha seguito molteplici vicende analoghe e saprà consigliare la strada migliore per gestire questa problematica e prestare una piena assistenza legale.

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In una interessante ordinanza dell’ 11 gennaio 2022, n. 654, gli Ermellini esaminano l’istanza di una moglie già separata che, al momento dello scioglimento degli effetti civili del matrimonio, ha richiesto di mantenere il cognome del marito unitamente al proprio. La Signora, infatti, sosteneva di aver interesse a conservare il cognome maritale in quanto, dopo decenni di utilizzo, esso era divenuto parte integrante della sua identità personale e sociale, fintanto da essere conosciuta nella sua città di residenza con il cognome dell’ uomo.

Le argomentazioni sostenute dalla donna non sono risultate sufficienti per la Corte di Cassazione la quale, invece, ha posto la questione su un piano differente, di tipo prettamente codicistico. Si è difatti affermato che il cognome del marito, così come disciplinato nell’art. 143 bis del codice civile, è meramente uno degli effetti del coniugio e perdura fintanto che esiste tale tipo di rapporto.

Il principio ispiratore è che l’assunzione del cognome si verifica quale rafforzativo del vincolo familiare tra la denominazione personale e lo status coniugale. Invero vige la conservazione del cognome nello stato vedovile ma lo si perde nel caso in cui la moglie dovesse passare a nuove nozze o dovesse, come nel caso in esame, divorziare dal marito. In quest’ultimo caso, la giurisprudenza ammette che la signora possa richiedere giudizialmente l’autorizzazione a continuare il predetto uso anche solo limitatamente ad un determinato ambito, come ad esempio quello accademico, commerciale o artistico.

Per tale esercizio, dunque, occorre un provvedimento discrezionale del giudice che ritenga i motivi addotti meritevoli di tutela, quali gli interessi della donna ovvero degli interessi dei figli, tanto da risultare indispensabile la spendita del cognome dell’uomo.

Nondimeno occorre che quanto sopra possa essere autorizzato solo nel caso in cui non si rechi alcun nocumento al marito, nonché esclusivamente ove la richiedente dimostri con sufficiente documentazione che ella abbia motivazioni fondate ben al di là del mero vincolo maritale ormai venuto a cessare per volontà di entrambi i coniugi.

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Una recente sentenza delle Sezioni Unite n. 32198/2021 ha affermato che con una nuova relazione more uxorio la persona economicamente più debole non perde necessariamente il diritto alla percezione dell’assegno divorzile.

Sul punto occorre ricordare che consolidata giurisprudenza afferma che la corresponsione dell’assegno divorzile assolva due esigenze fondamentali: la prima di natura compensativa e perequativa, la seconda di natura assistenziale. Se quest’ultima con l’inizio di una nuova convivenza viene completamente colmata, quella compensativa e perequativa, con la presenza di determinati requisiti, può permanere nella relazione tra gli ex coniugi.

In particolare è necessario che il soggetto richiedente, ed economicamente più debole, dimostri di essersi realmente impegnato, invano, nella ricerca di mezzi di sostentamento oppure che dimostri di essere oggettivamente impossibilitato a svolgere una mansione lavorativa.

Fonte giuridica di tale onere è ricavabile dall’art. 5, co. X, della L. 898/1970, nella quale viene specificato unicamente che la perdita del diritto all’assegno divorzile avvenga soltanto in caso di nuove nozze; tuttavia nulla viene sancito nel caso in cui si instauri una nuova relazione stabile, duratura, concretizzatasi attraverso la forma della convivenza ed accertata giudizialmente.

Con questa recente pronuncia, pertanto, la giurisprudenza ritiene che il richiedente, quand’anche abbia intrapreso una relazione more uxorio, possa comunque sempre beneficiare di un compenso economico commisurato all’età, alla durata del matrimonio, al ruolo e al contributo fornito in costanza del connubio.

Nello specifico vengono valorizzate le rinunce personali, professionali o lavorative del richiedente, nonché il concreto apporto fornito per la formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale di ciascuno dei coniugi.

In tale modo l’assegno divorzile, sebbene non miri a ricostituire il tenore di vita endoconiugale, rimane permeato della funzione retributivo-compensativa che salvaguarda l’individuo e la dignità del beneficiario.

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