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La sentenza del Tribunale di Palermo n. 2076 del 16.05.2022 ha trattato un’interessante caso di violazione dell’identità personale tramite la creazione di un profilo falso su un social network.

Con il termine identità personale si intende la rappresentazione di un individuo in relazione al contesto sociale in cui sviluppa la sua personalità; essa si correla ad un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, senza che venga travisato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, religioso, professionale. L’identità digitale, diversamente, consiste nella rappresentazione di un individuo che viene identificato in colui che crea e/o usa il dataset in cui essa è memorizzata.

Chiarita la differenza tra i due tipi di identità possiamo ora trattare i punti salienti della recente pronuncia del Tribunale di Palermo che ha accertato la violazione di entrambe le due tipologie di identità nel medesimo caso.

La vicenda ha ad oggetto, nel lontano 2012, la scoperta da parte di una ragazza di un profilo Facebook astrattamente riconducibile al proprio fidanzato, recante la sua foto profilo nonché i suoi dati anagrafici personali. Tale scoperta provocò da subito tensioni e turbamenti nella coppia, tanto da far interrompere la relazione tra i due per un certo periodo di tempo. Al fine di cercare di recuperare il rapporto di coppia e allontanare da sé ogni sospetto fedifrago, il fidanzato decise di cancellare il proprio vero profilo presente sul social network e sporgere una denuncia-querela presso la Polizia Postale contro l’ignoto creatore dell’altro profilo nel quale erano presenti i suoi dati anagrafici oltre ad una sua foto.

La denuncia, tuttavia, venne archiviata.

La coppia superò i dissapori e si rinsaldò fino a quando, dopo circa tre anni dai fatti sopra riportati, emerse nuovamente che il profilo incriminato era ancora presente sul social network. Non solo, oltre alla permanenza dei dati anagrafici del ragazzo della coppia fece scalpore il fatto che la sua foto profilo era stata modificata con uno scatto più recente. Tale rinvenimento fece sollevare nuovamente i dissapori e nervosismi tra i due storici fidanzati, tanto da indurre il ragazzo a presentare un’ulteriore denuncia nel 2015.

La situazione precipitò quando, un anno dopo, questo signore venne ammonito da un collega di lavoro del fatto che da quel profilo Facebook, che continuava a recare i suoi dati anagrafici e una sua foto, provenissero insulti, ingiurie e diffamazioni verso un terzo soggetto. Quest’ultimo era molto adirato in quanto da questo falso profilo sarebbe stato ingiustamente accusato di avventure extraconiugali con un’altra donna, anch’essa vittima delle accuse di questi tradimenti. Il signore diffamato, pertanto, aveva intimato al presunto titolare del falso profilo di astenersi dal proseguire  oltre tale condotta diffamatoria al fine di non mettere a repentaglio la propria incolumità: inutile dire che ciò provocò ulteriore turbamento nella vittima.

Nel frattempo, tuttavia, le indagini che erano seguite alla seconda denuncia portarono a concentrarsi sulla comunità religiosa cui appartenevano il titolare dell’identità carpita, il signore diffamato nonché la madre di quest’ultimo. La polizia postale riuscì altresì a rintracciare l’indirizzo IP dal quale era stato creato e tramite il quale veniva utilizzato il profilo falso, in maniera tale da risalire all’utenza telefonica e al relativo intestatario, in quel caso una società. Le indagini portarono quindi a verificare eventuali collegamenti tra i membri della comunità religiosa e i dipendenti della società utilizzatrice dell’indirizzo IP che era emerso dalle indagini.

Tra i sospettati spiccò un donna, nuova amministratore di quella società, membro della Chiesa Evangelica, nonché ex-fidanzata del soggetto diffamato. Una volta interrogata la donna confessò di aver creato quel falso profilo per tentare di recuperare il rapporto con l’ex-fidanzato, il soggetto diffamato, nonché tra l’altro per ferire la di lui madre.

Alla donna venne quindi ascritto il reato di cui all’art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003, rubricato trattamento illecito di dati, perché al fine di trarne per sé o per altri profitto, aveva creato un profilo falso utilizzando i dati anagrafici e le immagini raffiguranti un altro soggetto senza aver ricevuto  da questi alcun consenso, abusando così del trattamento dei suoi dati personali. La donna fu altresì condannata al risarcimento dei danni, la cui quantificazione fu commisurata sulla base della diffusione del falso profilo, della posizione sociale del danneggiato, della rilevanza delle offese allo stesso attribuite, nonché dallo stato d’animo conseguente alle vicende sopra descritte.

Lo Studio Legale Pasi suggerisce di non sottovalutare mai queste situazioni in quanto non sempre è agevole risalire all’autore di queste condotte. E’ necessario procedere nel minor tempo possibile, facendosi assistere da personale competente in materia e utilizzando gli strumenti che sono messi a disposizione dal nostro ordinamento, in maniera tale da agevolare l’attività di indagine ed evitare potenziali ulteriori pregiudizi.

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Il delitto di diffamazione si distingue dall’ingiuria per alcuni aspetti rilevanti. Quest’ultima è un’offesa alla reputazione, proferita con frasi o singole parole che minano l’onore e il decoro di un soggetto che si trova vis-à-vis con l’agente. La diffamazione, invece, rileva tutte le volte in cui l’agente, rivolgendosi ad almeno altri due soggetti, offende la reputazione di un individuo che non è presente in quel momento.

La condotta di questo delitto consiste in una sorta di “cassa di risonanza” dell’offesa, aggravata, tra l’altro, nell’ipotesi in cui il reato venga commesso attraverso un mezzo di diffusione come la stampa o un social-network. Su quest’ultimo aspetto, tra le tante decisioni in materia, si è pronunciata recentemente la Corte di Cassazione in relazione a Facebook con la sentenza n. 10762/2022.

Nella suddetta pronuncia viene ribadito l’orientamento giurisprudenziale dominante che ritiene configurato il reato di diffamazione nel momento in cui viene danneggiata, anche solo potenzialmente, la reputazione di una persona determinata, individuata o individuabile. Per tale motivo, anche se non vengono menzionati espressamente il nome e il cognome, la condotta si realizza se si può agevolmente risalire all’identità del destinatario dell’offesa.

Se ne deduce che la persona lesa può essere determinata anche dalla prospettazione oggettiva dell’insulto, nonché dal contesto in cui è inserita la diffamazione. Dunque, nel caso in cui non vi siano riferimenti inequivoci su fatti e circostanze di notoria conoscenza attribuibili ad un determinato soggetto, l’offesa deve essere tale da consentire l’individuazione del destinatario con affidabile certezza.

Nel caso analizzato da questa recente pronuncia l’offesa, oltre ad essere riferita ad un soggetto determinabile, era aggravata dall’aver utilizzato quale mezzo di diffusione rilevante la bacheca Facebook: invero, in tale modo si può raggiungere, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone o, perlomeno, un numero qualitativamente apprezzabile delle medesime.

La giurisprudenza al momento esclude la sussistenza del delitto di diffamazione quando l’agente proferisce affermazioni generiche, riferibili ad una categoria di persone, anche se sono limitate. Al contrario, è sicuramente configurato il reato quando l’agente lede l’operato o la figura di un soggetto determinato, determinabile, o identificabile, ancorché attraverso le circostanze narrate, oggettive e soggettive, oppure attraverso i riferimenti personali e temporali.

Ogni situazione è diversa dalle altre ed è sicuramente preferibile richiedere la consulenza di un Avvocato al fine di qualificare giuridicamente un determinato fatto, così da valutare preventivamente se ci si trovi in presenza o meno di un determinato reato.

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