Con l’Ordinanza del 6 Settembre 2022 n. 26164 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha definito una volta per tutte l’illegittimità delle bollette telefoniche a scadenza di 28 giorni, già in passato oggetto di provvedimenti che sono stati sempre impugnati dagli operatori telefonici: una vittoria decisiva utile a tutti i consumatori che per anni sono stati vessati da alcune Compagnie.

La Corte di Cassazione ha condannato gli operatori telefonici che imputavano agli utenti un canone fisso ogni 28 giorni anziché, più correttamente, mensilmente o bimestralmente in relazione ai contratti per le linee fisse nonché per le numerazioni mobili. Con questo escamotage le compagnie telefoniche potevano beneficiare di un rinnovo in più nel corso dell’anno e usufruire di 13 scadenze invece delle canoniche 12 annue.

A partire dal 2017, infatti, alcune compagnie telefoniche hanno apportato un aumento arbitrario di circa l’8,6% alle condizioni economiche per i contratti di telefonia, nonché una riduzione del periodo di rinnovo e/o fatturazione delle offerte, passando da una cadenza mensile a quella quadrisettimanale. In tale modo i consumatori risultavano danneggiati dall’aumento delle tariffe, non ricondotto da libere scelte imprenditoriali degli operatori di telecomunicazioni bensì da peculiari modalità della cadenza di fatturazione.

Tale approccio, oltre ad essere avulso dagli altri contesti di fatturazione tradizionalmente connotati da periodi di fatturazione ordinaria su base mensile, non risultava rispettoso della trasparenza delle condizioni economiche nei confronti degli utenti. Invero l’utente, grazie all’apparente piccolo scarto tra 28 giorni e un mese intero sottovalutava la sottile discrepanza e non coglieva fin da subito il predetto aumento. Inoltre la scelta della fatturazione a 28 giorni limitava drasticamente la possibilità di reperire offerte basate su termini temporali mensili, rendendo difficoltoso altresì l’esercizio del diritto di recesso, poiché non erano più reperibili sul mercato alternative diverse da quella così adottata.

In buona sostanza, oltre all’aumento dei prezzi delle tariffe telefoniche con modalità non trasparenti, l’aumento del corrispettivo dai canonici 12 rinnovi annui ai 13 di cui si è detto sopra, creava anche una impossibilità oggettiva di confrontare e scegliere offerte di altri operatori telefonici.

Una prima forma di tutela era stata già stata prevista con la delibera AGCOM n. 121 del 15 marzo 2017, con la quale l’Autorità aveva imposto agli operatori di telefonia di riportare la fatturazione su base mensile o suoi multipli per i servizi di telefonia fissa, tuttavia non tutti gli operatori si erano allineati a quanto stabilito in tale provvedimento.

A fronte dell’Ordinanza n. 26164/22 delle Sezioni Unite tutti gli operatori di telecomunicazioni non potranno continuare ad imporre la fatturazione per periodi quadrisettimanali ma dovranno immediatamente attenersi alla fatturazione mensile o bimestrale, senza giustificazione alcuna.

Nel caso in cui siate stati vittima di tale fatturazione scorretta lo Studio Legale Pasi potrà prestare assistenza per ottenere nel minor tempo possibile il rimborso delle somme indebitamente richieste, oltre ad un risarcimento dei danni patiti per i comportamenti sleali e poco trasparenti di alcune compagnie telefoniche.

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La Corte di Cassazione con l’Ordinanza del 21 luglio 2022 n. 21983 si è occupata di definire maggiormente i contorni della misura risarcitoria del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada. Nonostante l’argomento sia già stato trattato in un altro articolo disponibile a questo link, rimangono ancora dubbi sulla posizione che il danneggiato dovrebbe assumere in tale procedimento.

Il caso trattato aveva ad oggetto il coinvolgimento di un centauro che, mentre era alla guida del suo ciclomotore, veniva investito da un’autovettura la quale, omettendo di concedergli la precedenza, urtava il suo motociclo facendolo cadere a terra. L’autore del sinistro si era immediatamente dato alla fuga, non permettendo così al danneggiato di rintracciare alcun elemento utile ad individuare il veicolo o il  suo conducente. Pur essendo un caso perfettamente calzante con la disciplina risarcitoria del Fondo Garanzie per le Vittime della Strada la richiesta è stata respinta più volte, con buon avallo delle corti giudiziarie interpellate.

In primo e in secondo grado i giudici di merito hanno riconosciuto la responsabilità della vittima del sinistro in quanto non avrebbe avuto la prontezza di reagire e prendere immediatamente nota della targa dell’autovettura, o di altri elementi identificativi del proprietario o del conducente. Inoltre è stato altresì contestato il fatto che costui non avrebbe neppure depositato una denuncia-querela contro ignoti, non apportando così un suo contributo alla risoluzione della controversia.

La Corte di Cassazione, seguendo il proprio orientamento maggioritario, ha ritenuto tuttavia che il danneggiato non sia obbligato a depositare una denuncia-querela contro ignoti oppure ad attivarsi per identificare il veicolo o il danneggiante poiché, ai fini dell’accertamento giudiziale, tali elementi sono valutati come meri indizi. Invero la vittima non deve compiere specifiche indagini come integrazione dell’elemento necessario a configurare il requisito della “impossibilità incolpevole” del danneggiato, utile ad ammettere il risarcimento del danno. In altre parole se la vittima avesse apportato al caso l’identificazione del veicolo investitore o del danneggiante, l’indagine sarebbe risultata ultronea. Sicuramente non spetta alla vittima avere la diligenza di individuare il responsabile dell’occorso e la circostanza che il sinistro stesso sia stato effettivamente provocato da un veicolo rimasto non identificato. In tali circostanze se l’atteggiamento della vittima è fonte di circostanze obiettive e non imputabili a negligenza della stessa, un eventuale rigetto automatico della domanda potrebbe derivare solo da un’adeguata valutazione del compendio probatorio.

E’ pacifico dunque che quand’anche non si riesca a rintracciare il danneggiante per una causa non imputabile al danneggiato derivante a imprudenza, negligenza o imperizia, la parte lesa può ugualmente adire il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada per vedere riconosciuto il suo diritto al risarcimento che ha subito da un veicolo non identificato. Lo Studio Legale Pasi saprà indicarvi tempi e modalità per vedere riconosciuti i Vostri diritti e ottenere il risarcimento di un danno derivante da tali peculiari circostanze nel minor tempo possibile.

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La sentenza del Tribunale di Palermo n. 2076 del 16.05.2022 ha trattato un’interessante caso di violazione dell’identità personale tramite la creazione di un profilo falso su un social network.

Con il termine identità personale si intende la rappresentazione di un individuo in relazione al contesto sociale in cui sviluppa la sua personalità; essa si correla ad un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, senza che venga travisato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, religioso, professionale. L’identità digitale, diversamente, consiste nella rappresentazione di un individuo che viene identificato in colui che crea e/o usa il dataset in cui essa è memorizzata.

Chiarita la differenza tra i due tipi di identità possiamo ora trattare i punti salienti della recente pronuncia del Tribunale di Palermo che ha accertato la violazione di entrambe le due tipologie di identità nel medesimo caso.

La vicenda ha ad oggetto, nel lontano 2012, la scoperta da parte di una ragazza di un profilo Facebook astrattamente riconducibile al proprio fidanzato, recante la sua foto profilo nonché i suoi dati anagrafici personali. Tale scoperta provocò da subito tensioni e turbamenti nella coppia, tanto da far interrompere la relazione tra i due per un certo periodo di tempo. Al fine di cercare di recuperare il rapporto di coppia e allontanare da sé ogni sospetto fedifrago, il fidanzato decise di cancellare il proprio vero profilo presente sul social network e sporgere una denuncia-querela presso la Polizia Postale contro l’ignoto creatore dell’altro profilo nel quale erano presenti i suoi dati anagrafici oltre ad una sua foto.

La denuncia, tuttavia, venne archiviata.

La coppia superò i dissapori e si rinsaldò fino a quando, dopo circa tre anni dai fatti sopra riportati, emerse nuovamente che il profilo incriminato era ancora presente sul social network. Non solo, oltre alla permanenza dei dati anagrafici del ragazzo della coppia fece scalpore il fatto che la sua foto profilo era stata modificata con uno scatto più recente. Tale rinvenimento fece sollevare nuovamente i dissapori e nervosismi tra i due storici fidanzati, tanto da indurre il ragazzo a presentare un’ulteriore denuncia nel 2015.

La situazione precipitò quando, un anno dopo, questo signore venne ammonito da un collega di lavoro del fatto che da quel profilo Facebook, che continuava a recare i suoi dati anagrafici e una sua foto, provenissero insulti, ingiurie e diffamazioni verso un terzo soggetto. Quest’ultimo era molto adirato in quanto da questo falso profilo sarebbe stato ingiustamente accusato di avventure extraconiugali con un’altra donna, anch’essa vittima delle accuse di questi tradimenti. Il signore diffamato, pertanto, aveva intimato al presunto titolare del falso profilo di astenersi dal proseguire  oltre tale condotta diffamatoria al fine di non mettere a repentaglio la propria incolumità: inutile dire che ciò provocò ulteriore turbamento nella vittima.

Nel frattempo, tuttavia, le indagini che erano seguite alla seconda denuncia portarono a concentrarsi sulla comunità religiosa cui appartenevano il titolare dell’identità carpita, il signore diffamato nonché la madre di quest’ultimo. La polizia postale riuscì altresì a rintracciare l’indirizzo IP dal quale era stato creato e tramite il quale veniva utilizzato il profilo falso, in maniera tale da risalire all’utenza telefonica e al relativo intestatario, in quel caso una società. Le indagini portarono quindi a verificare eventuali collegamenti tra i membri della comunità religiosa e i dipendenti della società utilizzatrice dell’indirizzo IP che era emerso dalle indagini.

Tra i sospettati spiccò un donna, nuova amministratore di quella società, membro della Chiesa Evangelica, nonché ex-fidanzata del soggetto diffamato. Una volta interrogata la donna confessò di aver creato quel falso profilo per tentare di recuperare il rapporto con l’ex-fidanzato, il soggetto diffamato, nonché tra l’altro per ferire la di lui madre.

Alla donna venne quindi ascritto il reato di cui all’art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003, rubricato trattamento illecito di dati, perché al fine di trarne per sé o per altri profitto, aveva creato un profilo falso utilizzando i dati anagrafici e le immagini raffiguranti un altro soggetto senza aver ricevuto  da questi alcun consenso, abusando così del trattamento dei suoi dati personali. La donna fu altresì condannata al risarcimento dei danni, la cui quantificazione fu commisurata sulla base della diffusione del falso profilo, della posizione sociale del danneggiato, della rilevanza delle offese allo stesso attribuite, nonché dallo stato d’animo conseguente alle vicende sopra descritte.

Lo Studio Legale Pasi suggerisce di non sottovalutare mai queste situazioni in quanto non sempre è agevole risalire all’autore di queste condotte. E’ necessario procedere nel minor tempo possibile, facendosi assistere da personale competente in materia e utilizzando gli strumenti che sono messi a disposizione dal nostro ordinamento, in maniera tale da agevolare l’attività di indagine ed evitare potenziali ulteriori pregiudizi.

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Il Tribunale di Firenze con la Sentenza del 24.05.2022 è tornato a parlare del c.d. smishing, ovverosia una truffa con cui terzi malintenzionati, sfruttando una falla del sistema informatico bancario, riescono ad appropriarsi delle credenziali di accesso del servizio di home banking dei clienti e disporre dei relativi fondi.

Nel caso esaminato, una cliente di un Istituto di credito aveva ricevuto un messaggio WhatsApp recante il logo della Banca, nel quale era stato richiesto di fornire le credenziali di accesso all’home banking per consentire un aggiornamento dell’applicazione mobile. Il contenuto del messaggio era stato inoltre confermato telefonicamente da un presunto dipendente della Banca. La Signora, convinta ingenuamente della provenienza ufficiale della richiesta, aveva così scaricato l’applicazione indicata nel messaggio ricevuto e, tramite l’accesso ad un link dell’applicazione, aveva altresì inserito i dati di accesso al proprio conto corrente. In quel modo i truffatori erano riusciti ed entrare in possesso delle credenziali e, contestualmente, effettuare la sottoscrizione di un nuovo contratto con il quale generare i codici OTP utili alla disposizione delle operazioni. Da quel momento, pertanto, le operazioni sarebbero state confermate virtualmente attraverso l’app mobile in possesso dei truffatori e non più mediante il token generato dalla chiavetta hardware ancora in possesso della cliente.

Ma vi è di più.

Il giorno successivo il cellulare della cliente ha cessato immediatamente di funzionare in conseguenza dell’avvenuta truffa. I malintenzionati, infatti, tramite un’operazione di SIM Swap, erano riusciti ad impossessarsi del numero di telefono della cliente. Tale operazione viene abitualmente richiesta dagli utenti di telefonia mobile quando si intende cambiare la propria SIM mantenendo lo stesso numero: la ragione più frequente consiste in un semplice cambio di formato di scheda in quanto non tutti i telefoni supportano la stessa dimensione delle schede SIM. Tramite le due operazioni combinate di smishing e SIM Swap, pertanto, i truffatori non solo erano riusciti a farsi consegnare dalla signora le credenziali per accedere all’home banking ma avevano altresì la possibilità di generare OTP virtuali nonché di ricevere i codici OTS dalla banca, indirizzati sul numero della cliente che ormai era stato trasferito su una SIM in loro possesso. Non è stato difficile, pertanto, in primo luogo alzare i massimali delle operazioni nonché, in seguito, effettuare molteplici bonifici senza la necessità di altre azioni da parte della danneggiata e soprattutto a sua totale insaputa.

Da tale quadro è emersa astrattamente una falla di sicurezza nel sistema bancario. Invero per il trasferimento del numero cellulare dalla SIM della signora ad un’altra in possesso dei truffatori, era stato sufficiente che un operatore in un centro autorizzato, distratto o connivente, avesse fatto lo swap della SIM in tempo reale, senza ulteriori controlli o interventi diretti dell’utente.

Tuttavia tale operazione non è sufficiente a costituire un presupposto di responsabilità da parte della Banca utile al risarcimento dei danni patiti dalla cliente. A tal proposito occorre analizzare diversi fattori

L’Istituto di credito, per aumentare la sicurezza per l’accesso alla propria piattaforma di home banking, richiedeva ai propri clienti una doppia autenticazione: l’identità dell’utente mediante una combinazione di credenziali, UserID e PIN, nonché un codice OTP inviato tramite messaggio SMS al numero di cellulare indicato in sede di sottoscrizione del contratto. Inoltre la Banca aveva assunto ogni opportuna misura di sicurezza per contrastare il fenomeno delle truffe online e i rischi di phishing/smishing, attraverso una costante e massiccia informativa della clientela, sia all’interno dei contratti sia sul proprio sito internet, ricordando di seguire sempre le indicazioni ufficiali fornite dall’Istituto e di diffidare di richieste sospette. Tutte queste informative, tra l’altro previste e imposte dalla normativa europea, hanno consentito alla Banca di rimanere esente da ogni responsabilità nonostante il perfezionamento della truffa.

A ben vedere, infatti, la truffa si è realizzata in quanto tutte le operazioni sopra descritte erano state autenticate e confermate correttamente grazie al corretto inserimento di tutte le credenziali e dei codici di verifica di tipo Otp e Ots in uso alla cliente: per questo motivo il sistema non era stato in grado di rilevare la fraudolenza dell’operazione e non ha bloccato alcun accesso. Nel caso di specie la condotta illecita è stata ricondotta ad esclusiva colpa della cliente, la quale ha attuato una serie di operazioni prodromiche e necessarie alla realizzazione della truffa. Invero, nonostante la ricezione di molteplici avvisi, ammonimenti e comunicazioni da parte della Banca finalizzati ad evitare che i clienti comunicassero a terzi i propri dati d’accesso, la vittima in questione aveva inserito le proprie credenziali all’interno di un’applicazione estranea alla Banca, consegnandole di fatto agli autori dell’operazione fraudolenta. Infatti, nel caso di specie, il solo furto della SIM non sarebbe stato da solo sufficiente a perfezionare la truffa.

In caso di malfunzionamenti anomali da parte dell’app del proprio Istituto di credito, nelle operazioni telematiche, oppure in caso di richieste telefoniche o tramite messaggi finalizzate a consegnare le proprie credenziali è necessario prendere immediatamente contatto con la propria Banca per le opportune segnalazioni. In seguito è sicuramente raccomandabile presentare una denuncia all’autorità giudiziaria al fine di accertare eventuali responsabilità penali.

Lo Studio Legale Pasi ha assistito molteplici vittime di truffe di questo genere e saprà suggerire la soluzione più rapida e maggiormente calzante per limitare l’insorgere di danni e salvaguardare i propri risparmi.

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Nel caso in cui doveste ricevere fatture di energia elettrica con un importo sospetto, eccessivamente elevato e non dovuto solamente agli aumenti che stanno interessando questo periodo, c’è la possibilità di intraprendere diversi rimedi, sia in sede stragiudiziale sia in sede giudiziale.

La prima strada consiste nel cercare una facile e diretta risoluzione della controversia attraverso un intervento preliminare di un legale che, ovviamente, farà il possibile per dirimere la controversia attraverso una conciliazione con la società con la quale è stato sottoscritto il contratto di somministrazione di energia elettrica. Tuttavia capita non di rado che in questa sede non si trovi un’intesa per comporre bonariamente la questione. In tal caso sarà quindi necessario intraprendere la seconda strada che consiste nell’adire l’autorità giudiziaria competente.

Tale ultima possibilità è stata di recente rimarcata dall’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 21564 del 7 luglio 2022, nella quale un cliente ha convenuto in giudizio il trader e la società di distribuzione di energia elettrica, nel caso di specie Enel S.p.A. ed Enel Distribuzione S.p.A., per accertare la correttezza dell’addebito in fatturazione di un importo decuplicato rispetto alle fatture precedenti.

Dalla fase istruttoria è emerso che nell’arco temporale di riferimento, 2012-2013, la società di distribuzione aveva sostituito il contatore dell’energia elettrica in assenza del titolare del contratto e in presenza di un soggetto estraneo e non autorizzato dal consumatore a sorvegliare l’operazione. Questa circostanza, da sola, rendeva già la sostituzione del contatore illegittima.

Nondimeno la fattura sospetta era stata emessa a fronte della lettura del nuovo contatore, effettuata qualche mese prima, sul quale il fruitore già lamentava qualche disservizio. Su questo punto la Cassazione ha pertanto stabilito un fondamentale principio utile a tutti i consumatori che mensilmente si vedono recapitare bollette con importi sempre più cospicui.

Il Supremo Collegio ha precisato che in tema di contratti di somministrazione, la rilevazione dei consumi mediante contatore è assistita da una mera presunzione semplice di veridicità. Ciò comporta che, in caso di contestazione da parte dell’utente, è onere della società somministratrice di energia elettrica provare che il contatore sia perfettamente funzionante. In ipotesi negativa nulla è dovuto per le fatture ricevute. Ma, anche nel caso in cui il contatore sia regolarmente funzionante, il fruitore può essere sollevato dagli oneri pecuniari qualora dimostri che l’eccessiva onerosità dei consumi derivi da fattori a lui non imputabili, ovverosia a circostanze esterne al suo controllo, ovvero a fattori che non avrebbe potuto evitare neppure con un’attenta custodia dell’impianto.

Da quanto sopra indicato, se ne deduce che una fattura emessa sulla base della lettura rilevata da un nuovo contatore malfunzionante non può legittimamente fondare la prova del consumo di energia elettrica.

Lo Studio Legale Pasi saprà indirizzarVi in merito ad alcuni elementi fondamentali desumibili dal dettaglio delle fatture emesse a Vostro carico e sui quali, eventualmente, si potrà intraprendere una risoluzione stragiudiziale o giudiziale a seconda delle Vostre esigenze.

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Accade spesso che i fornitori di beni o servizi richiedano agli utenti finali la domiciliazione dei pagamenti ricorrenti su carte di credito. Tuttavia in pochi sanno che qualora il pagamento venga correttamente disposto in virtù di un rapporto di credito e in seguito manchino le risorse a copertura di detto importo è possibile subire una segnalazione presso la CAI – Centrale d’Allarme Interbancaria istituita presso la Banca d’Italia.

La Banca d’Italia definisce la CAI quale sistema sanzionatorio, alternativo a quello penale, che basa la propria efficacia i) sulla disponibilità presso tutti gli intermediari delle informazioni sul soggetto che ha utilizzato in modo illecito assegni bancari e postali nonché carte di pagamento e ii) sull’applicazione di misure di carattere interdittivo nei confronti degli autori di tali comportamenti.

La CAI costituisce un servizio di interesse economico generale finalizzato ad assicurare il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti a livello nazionale ed evitare che un soggetto, prima di un eventuale intervento da parte della magistratura, possa disporre sistematicamente pagamenti senza averne la relativa provvista. Si fa presente, tra l’altro, che la segnalazione ha una durata di due anni con decorrenza dall’inserimento: in tale lasso di tempo i soggetti con i quali vengono intrattenuti rapporti finanziari, quali ad esempio carte di credito, leasing e finanziamenti, possono discrezionalmente revocare le condizioni precedentemente accordate e chiedere la restituzione delle tessere di pagamento, con diffida al relativo utilizzo, ovvero il rientro immediato delle somme precedentemente erogate.

Tuttavia non sono rari i casi di segnalazione illegittima da parte degli Istituti bancari. In tali ipotesi è possibile ricorrere  all’Autorità Giudiziaria tramite l’assistenza di un Avvocato al fine di ottenere un provvedimento che ordini all’Istituto la cancellazione dai registri tenuti presso la Banca d’Italia. Nel caso in cui si ritenga di aver subito illecitamente una segnalazione presso la Centrale d’Allarme Interbancaria sarà necessario attivarsi prontamente onde risolvere nel minor tempo possibile la spiacevole situazione ed evitare la cristallizzazione del provvedimento sanzionatorio. Lo Studio Legale Pasi ha curato e ottenuto provvedimenti favorevoli in tal senso in questa materia speciale e si rende disponibile a valutare eventuali nuove pratiche.

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Il Regolamento CE n. 261/2004 dell’11.02.2004 ha istituito delle regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di cancellazione del volo ovvero in caso di ritardo prolungato.

In tale ultimo evento, durante l’attesa, il passeggero ha diritto ad un’adeguata assistenza minima. Essa consiste in un’offerta a titolo gratuito di pasti e bevande, in due chiamate telefoniche o in messaggi via telex, fax o e-mail, nonché di quant’altro sia ritenuto indispensabilmente utile ai soggetti più fragili.

Nondimeno, se l’orario di partenza è spostato al giorno successivo, i passeggeri hanno diritto a ricevere gratuitamente una sistemazione in albergo oltre al trasporto fino al luogo della sistemazione e da quest’ultimo fino all’aeroporto. Per quanto concerne il pernotto il Regolamento non menziona alcuna sistemazione in alberghi di lusso; se ne conviene pertanto che debba essere garantita almeno una pensione di media fascia.

Se il ritardo accumulato risulta essere di almeno cinque ore, inoltre, i passeggeri possono scegliere il rimborso del prezzo integrale del biglietto oltre, se necessario, ad un volo di ritorno al punto di partenza iniziale.

In caso di cancellazione del volo, i passeggeri interessati devono ricevere, oltre all’assistenza di cui si è detto sopra, ovverosia il poter usufruire di pasti e bevande, di sistemazione in albergo e trasporto tra l’aeroporto con il luogo di sistemazione, nonché la comunicazione a familiari, anche il rimborso del biglietto entro sette giorni oppure un volo di ritorno verso il punto di partenza iniziale o a un volo alternativo verso la destinazione finale. In aggiunta è altresì sancito un risarcimento che varia da Euro 250,00, ad Euro 600,00, in forza della distanza chilometrica che quella tratta cancellare avrebbe dovuto compiere.

La cura e l’attenzione prestata alla clientela, inoltre, è doverosa anche nelle fase antecedenti al verificarsi del disguido, in quanto la compagnia aerea deve pur sempre informare del ritardo o della cancellazione della tratta in tempo ragionevoli. Nel caso in cui mancasse tale elemento, ovvero se non la compagnia non riuscisse ad informare il passeggero con sufficiente anticipo, la compagnia è tenuta alla compensazione pecuniaria.

Infine è doveroso specificare che tale compensazione è dovuta anche per i viaggiatori minorenni seppur paganti, anche nel caso in cui la famiglia abbia acquistato un pacchetto turistico all-inclusive poiché in tale caso non si può ritenere che non sia stato pagato il prezzo del trasporto. Ad ogni modo, il diritto alla compensazione viene meno se il vettore dimostri che la cancellazione sia dovuta a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso.

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A seguito di una caduta per un dislivello di un tombino non segnalato, un pedone ha convenuto in giudizio un ente comunale, richiedendo i danni da omessa custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c.

Il danno da cosa in custodia dipende dalla natura stessa del bene, dalla sua concreta potenzialità dannosa, oppure dal suo dinamismo intrinseco. Ecco perché la responsabilità sui danni causati dal bene ricade su chi ha il cd. “governo” della cosa, intendendosi chi abbia un effettivo potere di diritto o di fatto sulla cosa, tanto da consentirgli di vigilare e di controllare il verificarsi di futuri eventi nefasti, come nel caso di specie il danno causato al pedone a seguito della caduta.

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte nell’Ordinanza n. 11794/2022 è stato ribadito che per accogliere la richiesta di risarcimento di tale specie, occorra valutare in primo luogo non tanto la condotta di chi abbia la custodia della cosa, bensì l’atteggiamento del danneggiato che entra in interazione con il bene.

Chi ha un determinato bene in custodia, infatti, deve avere un generale comportamento di cautela, tenendo in considerazione e prevedendo il possibile verificarsi di eventi dannosi. In particolare è stato stabilito che più il danno sia prevedibile e superato attraverso le normali cautele plasmate sulle circostanze, attese e prevedibili, maggiore sarà la responsabilità in capo al danneggiato, fintanto da sollevare il custode da responsabilità ex art. 2051 c.c. Si fa presente che il principio appena enunciato è ormai granitico in quanto non risultano presenti precedenti difformi.

Calando tali principi nel caso di riferimento, invero, vi erano condizioni di piena visibilità e di diversa colorazione del manto stradale, motivi per cui il pedone godeva di tutte le condizioni per applicare l’ordinaria diligenza al fine di evitare l’evento dannoso. Con un livello di attenzione media, pertanto, il pedone avrebbe potuto e dovuto percepire la presenza di un tombino sporgente, evitando così il relativo impatto. In tale circostanza, inoltre, il tutto è avallato dal fatto che nei pressi del tombino vi fosse un agevole marciapiede da raggiungere, che avrebbe consentito un percorso alternativo al pedone.

Da quanto sopra esaminato, è evidente che al di là dell’imprevedibilità dell’evento, quindi, la nefasta conseguenza si è verificata a causa della disattenzione del danneggiato: tale condizione è sufficiente per interrompere il nesso eziologico tra responsabilità del custode della cosa e l’evento dannoso.

L’esperienza dello Studio Legale Pasi Vi saprà indicare in quali casi sarà possibile formulare una richiesta di risarcimento a seguito di un evento dannoso causato dall’omessa custodia del bene, ovvero se emerga che il danno sia derivato da una evenienza accettabile, valutato sulla base di un criterio probabilistico di regolarità causale.

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La malattia professionale, così come definita dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, è una patologia contratta durante o tramite l’attività lavorativa, la cui causa agisce lentamente e progressivamente sull’organismo. Al fine di ottenere un risarcimento o un indennizzo è preferibile presentare un’istanza all’INAIL per il tramite di un Avvocato, al fine di ottenere il corretto riconoscimento economico attraverso i criteri di seguito individuati.

Il quadro normativo di riferimento per le malattie professionali è il D.P.R. del 30 giugno 1965, n. 1124, rubricato “Testo unico sull’assicurazione degli infortuni sul lavoro”, all’interno del quale l’art. 139 stabilisce che le patologie debbano essere indicate in apposite tabelle aggiornate ed approvate con Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro della Salute, sentito il Consiglio superiore di sanità.

Tale previsione, applicabile per il settore dell’industria e per il settore dell’agricoltura, richiede che la denuncia pervenga entro un determinato periodo di tempo, stabilito alla voce “periodo massimo di indennizzabilità”, dalla cessazione dell’attività rischiosa.

A ogni buon conto, sono malattie professionali anche quelle non specificatamente previste nei prospetti legislativi suddetti e, anzi, vi è una rilevante differenza probatoria tra le due categorie.

Nell’ambito del cosiddetto “sistema tabellare”, il lavoratore deve provare l’adibizione a lavorazione tabellata ma è sollevato dall’onere di dimostrare l’origine professionale della malattia. Per le malattie professionali non tabellate, invece, occorre che si dimostri il nesso causale tra l’attività svolta e la malattia.

Sul punto, però, è sufficiente che la prestazione lavorativa sia stata causa concorrente o prevalente, e non necessariamente esclusiva, al verificarsi della fisiologia. Al lavoratore o ai suoi eredi, tuttavia, rimane l’onere di dimostrare l’effettivo esercizio dell’attività che ha esposto al rischio o alla morte del danneggiato. Altresì ai fini della risarcibilità è sufficiente il cd. “rischio ambientale” applicabile quando la patologia si sia verificata ai danni di un lavoratore non specificatamente e direttamente addetto alle stesse mansioni nocive.

In altre parole, è degno di rilevanza il malessere scaturito da fattori ambientali o in ragione delle lavorazioni pericolose eseguite all’interno dell’ambito lavorativo.

Salvo prova contraria dell’INAIL, se ne deduce che ai fini risarcitori non viene valutato il fattore temporale di esposizione bensì la mera esposizione al rischio dal quale ne è derivato, dall’ambiente o dalla sua prestazione, la malattia o il decesso. Al fine di individuare insieme l’esatto iter da percorrere al fine di evitare una negazione di un Vostro diritto è preferibile l’assistenza di un Avvocato competente in materia.

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Un’ordinanza di merito del Tribunale di Trani emessa il 30.08.2021, tratta della pericolosa quanto improvvida pratica dello sharenting effettuata da alcuni genitori, che vede la diffusione sui social-network di immagini o video, anche di breve durata, riguardanti figli minorenni.

Il caso riguardava la condanna di una madre alla immediata rimozione delle immagini già pubblicate sui social-network, oltre al pagamento di un’ammenda a favore del figlio per ogni giorno di ritardo dalla compiuta rimozione, nonché all’inibizione da future pubblicazioni. Tale condanna è stata possibile in quanto il padre della minore, con un’età inferiore ai quattordici anni, non prestava l’assenso a tale pratica.

La suddetta pronuncia è solo la punta dell’iceberg di diversi principi e convenzioni che vigono a tutela dei minori e dei loro dati personali, che giungono a salvaguardare anche la loro immagine e la loro vita privata. In particolare il genitore, con tale atteggiamento improvvido, viola a vario titolo normativa di rango nazionale, europea nonché convenzioni internazionali. La mera diffusione dell’immagine del minore è già di per sé una violazione della vita privata del bambino poiché gli si arreca pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine. Altresì è rilevante il profilo della pericolosità di tale iniziale diffusione in quanto violativa della sicurezza per i minori, poiché la pubblicazione facilita la diffusione dilagante e incontrollabile delle fotografie che raggiungono così un gran numero di utenti, per di più sconosciuti, e mette a rischio il bambino da pericoli esterni. Invero, come è noto, la rete consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, creando così uno strumento utile alla condivisione di dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile. Inoltre è anche facile che alcuni malintenzionati possano anche servirsi di tali immagini, adescando minori ritratti o creando materiale pedopornografico con fotomontaggi.

Alla luce di quanto sopra, dunque, il genitore che non presta il consenso a tale pubblicazione, può adire le vie giudiziarie per ricorrere d’urgenza al fine di tutelare il proprio figlio minore, anche se la condotta illecita dell’altro genitore è stata posta in passato. Sul punto non rileva neppure che uno dei genitori avesse libero accesso al profilo dell’altro genitore, dacché visionare il profilo non equivale ad accettare l’illecita condotta dell’altro genitore.

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